"A meno che tu non voglia parlarmi di te" ... "Inutile e imbarazzante, non è così?"

Chi sono

Classe 1980. Artista per diletto. Diletto per vocazione. Autore compositore autodidatta. Iscritto alla SIAE dal 2004 al 2014. In attesa di un'Umanità che funzioni senza l'imbroglio del denaro, non credo più in nessun concorso, in nessuna classifica, in alcun premio, in alcuna giuria. Fare un business del merito giustificati dall'aver fatto dell'intera esistenza umana un business, non è un'arte ma un crimine contro l'Umanità. Non abbiamo deciso noi con che doti nascere. Non siamo artefici di nulla ma noi stessi uno strumento. Poichè è gratuita la Vita di cui ci è stato fatto dono e poichè della Vita siamo mero strumento, l'unica vera felicità per l'artista (che è in ogni uomo) è farsi gratuito strumento di condivisione. Questa solo è l'essenza dell'arte. Qui c'è chi sono, ed è grazie alla lezione di sommi mastri di umanità. Conosciamoci e condividiamoci dunque. E' il nostro unico potere. Quando lo vorremo fare tutti, non avremo più bisogno dell'imbroglio del denaro.

SONETTI Concorso Nazionale Premio Atheste 1999




Prefazione dattiloscritta del 1999




Prefazione del 2005

Mi sono spesso chiesto cosa spinge una persona a scrivere poesie. La risposta migliore che mi sono dato è che prima o poi ci si sente semplicemente in dovere di esprimere un grazie o un rimprovero alla vita per aver evocato emozioni, e lo si vuole fare nella maniera più incisiva possibile. Mi sono chiesto allora cosa spinge una persona a non scrivere poesie. Forse la paura di non essere compresi. Forse la vergogna se si viene pregiudicati. Forse la paura di non essere preparati culturalmente. Spero che questi forse siano smentiti dalla realtà, perché voglio sempre credere alla fine che non esiste persona che non abbia scritto una sola poesia, un solo verso.
Da parte mia quei forse, che un tempo mi preoccupavano, ora non mi preoccupano più: provo molti sentimenti nei confronti della vita, e la poesia e la musica sono gli unici strumenti efficaci che conosco per comunicarli.
Se penso che tutti nasciamo poeti ma poi si può anche non diventarlo, è perché talvolta c’è il rifiuto di essere poeti, perché, per esserlo, bisogna fare una cosa molto difficile: accettare di non apparire. Mai.
Ebbene, detto questo so di apparire presuntuoso, e ve ne chiedo scusa. Presuntuoso so di non esserlo, in quanto coerente alla mia idea di poesia. E infatti vi chiedo scusa per l’apparirlo e, ripeto, non deve succedere al poeta. 
La mia idea di poesia mi auguro risulti a chiunque un’idea semplice di poesia, ma non per farne una situazione di comodo.
La poesia nasce in chi la scrive, ma vive in chi la legge. Nasce da ogni uomo che vuole comunicare sinceramente il proprio sentimento nella forma che meglio lo definisce. Non serve altro da parte di chi scrive poesie. Da parte di chi legge, non è poi così diverso: vuole sinceramente confrontare il proprio sentimento con quello degli altri. Chi scrive e legge poesie innanzitutto deve provare gusto a scrivere o leggere, e quel gusto deve essere motivato dal provare emozioni. Quelle emozioni devono divertirlo, fossero anche le più angoscianti, perché l’emozione di un sentimento ricorda di essere vivi, ti rende cosciente del presente in cui senti quel sentimento, e ciò è il divertimento della vita allo stato puro.
Se si supera l’ostacolo arduo ed equivoco del non apparire, viene garantito, e non è affatto equivoco, il sapore di quel divertimento originale.
Divertirsi infatti è una necessità che non prevede nessuna difficoltà: non è pensabile far fatica a divertirsi. Per questo chi scrive poesie non deve nulla a chi legge poesie, e chi legge poesie non deve nulla a chi le scrive. Entrambi sono fruitori di ciò che vivono: ciò che ci si scambia, ciò che ci si comunica, lo si fa in ugual misura e, forse, non appartiene a nessuno.
Infine, la poesia nasce in chi la scrive, vive in chi la legge, ma se deve morire o meno, lo decide sempre qualcun altro. Non ci preoccuperemo del sentirci diversi e lontani per chiamare quel qualcun altro Dio oppure Destino se saremo scrittori e lettori di poesia che si accontentano di esserne fruitori.
Dunque buona lettura, buone emozioni, buon divertimento!

08 luglio 2005






SONETTI


Prefazioni del 2005
Essendo la mia formazione influenzata dal grande drammaturgo e poeta William Sheakespeare, per i miei sonetti ho usato la metrica del sonetto vittoriano. Ma se mi si chiedesse qual è per me la poesia numero uno, la poesia per eccellenza, risponderei la canzone A Silvia di Giacomo Leopardi, poeta che ha espresso in modo impareggiabile la profondità delle problematiche esistenziali. Leopardi è l’esempio di ricerca totale di poesia, interiore ed esteriore. Mi son sentito per questo in dovere di dedicargli un sonetto, che non avrà certo bisogno di introduzioni.
A Giacomo Leopardi.
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Fu il primo sonetto che scrissi quando, nella primavera del 1999, decisi di partecipare ad un concorso di poesie che proponeva il tema dei Valori. Proprio perchè è il primo sonetto, credo che non ci sarà altra poesia che mi darà altrettanta gratificazione, perchè quando chi vuole scrivere poesie si mette alla prova cimentandosi a scrivere un sonetto, e ci riesce, allora d’incanto non ha più bisogno di conferme: la sua opera è lì, è lui, e non può che essere cosa buona. Infine la gratificazione di esser riuscito ad esprimere concetti che faticavo anche solo a pensare, non saprei ancora se per difficoltà, per dolore o per gioia stuporosa. Compresi che la poesia è un dono enorme per l’uomo, che, se non sapesse usare la parola per parlare della realtà che lo circonda, non si sentirebbe che un animale, e se non avesse la poesia per parlare della propria anima, non sarebbe che un animale parlante.
L’uomo è alla ricerca del proprio essere, e desidera conoscere ciò che è potenzialmente nel presente per poter sognare sul proprio futuro. L’amore eterno, l’amore radicale è l’oggetto sublime della sua ricerca, ed è ciò che più di tutto può dare dignità a questa breve esistenza terrena, altrimenti futile. Conscio che se fallisce questa ricerca fallisce il senso dell’esistenza, è pronto a camminare lungo la strada scommettendo tutto, togliendo ogni velo (nudi piedi/nudo cuore) e sopportando il peso di tale rischio (il nudo cuore sotto di essi). Ma in questa ricerca ci si disorienta: il nostro sogno si confonde con la nostra chimera e con i sogni e le chimere di chi ci circonda. Nell’attimo di lucidità il proprio presente appare in buona parte sprecato a desiderare solo ciò che non si vive, e così attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, anche il nostro futuro è vanificato dalla nostra ricerca. Ma cosa vuole allora da noi l’esistenza? Perchè la vita gioca le tue energie in continui alti e bassi? Perchè non ci sentiamo mai arrivati nella nostra ricerca? Quando ci fermiamo a gridare in faccia alla nostra vita queste domande inevitabili, solo a questo punto, possiamo ritrovarci soli, perché non udiamo risposta d’intorno (Ma, oh, me vita tu sei, non voce). Ma la presa di coscienza che noi siamo vita e, finché vivi, cercatori e fruitori di vita, ci consola più di qualsiasi risposta venuta da chissà quale voce.

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È un gioco che si fa spesso, dacché si diventa adolescenti, mettersi a riflettere sulla cosa più importante della vita, e, per non smentire l’aura di romanticismo che ogni adolescente vede sullo sfondo della propria esistenza, spesso si conclude: «la cosa più importante è l’amore». Il passo successivo è chiedersi perché l’uomo non ha fatto dell’amore la chiave con cui aprire le porte che lo circondano, lasciando pure chiuse quelle che non si aprono, fiducioso di non perdersi nulla, anzi. Non appena ci si chiede questo si è già grandi, ci si riscopre razionali, a volte si rimpiange di esser cresciuti per l’amarezza che quelle domande lasciano. Se non ci si lascia prendere dalla depressione, la stessa razionalità ci rivela una grandiosa risposta non alla seconda ma alla prima domanda: « Qual è la cosa più importante della vita? ». Ebbene, dare un valore alla realtà che ci circonda non ha paragoni. La cosa più importante della vita non è un contenuto che mettiamo alla realtà, ma riconoscersi esseri dotati e padroni della facoltà di dare contenuto, colore, qualità alla realtà. Dare un senso a ciò che succede dentro di noi e fuori di noi è l’atto stesso dell’esistenza.
Compreso ciò, ci si rende conto che anche il più elevato modo di concepire l’amore non può essere più importante del modo di concepire il dare un valore alle cose, fosse anche il più superficiale. Non riconoscere questo, significa svalutare anche il valore che assume tutto il resto (allor neppur amore c’è in te; amore qui usato con la lettera minuscola rispetto a prima per indicare la perdita del valore attribuito all’amore, qualora si ammette che a nobilitare, dar dignità all’uomo è un contenuto da ricercare, non l’atto che ad esso ci fa arrivare. “Concetto di nobiltà e dignità suprema” è espresso con più immenso).
Non è tutto. La vera sfida della nostra razionalità è capire il senso del dare un senso. Da qui anche la parola valore sfuma. Ci si riscopre ciechi quando, di fronte al miracolo della vita, la parola valore assume istintivamente un significato materiale. Si è tentati di accontentarsi (chissà se a ragione) di dare un valore a quanto la vita sprigiona nella sua essenza, godere di ciò e basta. Tuttavia non si può non essere gratificati dalla prima conquista, perciò gli ultimi versi sono la risposta (in forma di domanda, in stile ebraico se vogliamo) alla domanda espressa nei primi versi.

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La vita letteralmente si spreme tra i pianti e i sorrisi che accompagnano il tentativo di realizzare i nostri sogni, di dare vita ai nostri valori e mettere alla prova ciò che si presenta sotto le sembianze dell’illusione. Vi sono anche momenti di quiete (giace), ricercata per riflettere o semplicemente per riluttanza a quello spremersi frenetico imposto dal mondo moderno. Inevitabilmente si ricade nella ricerca avida di quello che siamo, perché ogni giorno, magari inconsciamente, ma il nostro "io" sa che non si è più quelli del giorno prima. Il cerchio si chiude in queste tre azioni, ma ogni volta ad un grado superiore, come lungo le spire di una spirale.
Valori, illusioni e sogni si confondono tra loro in modo tanto affascinante quanto spaventoso, perché se i sogni sono un’entità che comunque mettiamo in dubbio, la confusione tra un valore e un’illusione è tragica. Un bambino neonato tremante può rappresentare la gioia di una vita che nasce, o il triste inizio del pianto di una vita;  così non è neppure detto che un  vecchio malato tremante sia sorridente, consapevole di aver vissuto una vita colma di profonde esperienze. Infine un bambino neonato tremante può coincidere con un vecchio malato morente, possono rappresentare la stessa metafora, in positivo o in negativo. Anche perché le due persone, agli antipodi dell’esistenza, coincidono.
Ma la confusione fisiologica non è un dramma in sé, perché può essere risolta. Il dramma è che l’uomo si arrende a questa confusione. Per viltà o pigrizia, si arrende nella ricerca dello spirito, e cerca di appagarsi soddisfacendo i propri istinti più bassi. La Bestia indica la tentazione primordiale, la Tentazione per eccellenza: appagare il desiderio di potere e di superiorità.
Sorprende che basti così poco basta perché l’uomo si rinchiuda nei propri egoismi. Stupisce che la vera illusione sia sentirsi appagati in questa posizione. La conclusione è che ha valore ciò che soddisfa la Tentazione, e rimane illusione ciò dovremmo riscoprire come valore.

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Il progresso dell’uomo, non solo in senso scientifico, si può definire come la ricerca di ciò che è utile alla sua esistenza: utile al suo benessere fisico, mentale, spirituale. In questa definizione si nota chiaramente come il concetto di utile sia strettamente connesso al concetto di bene. Si parte dal presupposto che l’uomo dovrebbe, nel suo progresso, prefiggersi di cambiare in positivo ciò che in natura si presenta come negativo evitando al tempo stesso che la sua azione renda negativo ciò che già vi è di positivo.
Dal punto ideale la scienza (intesa come facoltà, non metodo) dovrebbe prefiggersi questo obbiettivo morale.
Se ciò non accade, (spesso perché la scienza vuole esser vista solo come metodo, non come facoltà, per cui “deve andare avanti”) allora per produrre un utile si rilascia a fianco un disutile («fumo»), magari più grande dell’utile. Non è più lecito (in senso morale, non in senso legale) affermare che questa ricerca è diretta all’utile, perché ciò è giustificato solo dal comodo. È una situazione di comodo togliere alla scienza la responsabilità di un limite morale che deriva dalla necessità di pesare i rischi e i benefici della propria azione (strappasti alla scienza l’onore). Se disonora l’uomo non avere come oggetto della scienza il progresso verso il bene, si perde la dignità umana quando l’applicazione della scienza, al di là di come è stata concepita, non realizza il bene (strappasti alla tecnologia la dignità). 
Ma identificare il comodo con utile quando invece ne è solo un aspetto non è solo una bugia. Diviene una vera e propria viltà quando l’uomo lo fa coincidere moralmente con il bene, e arrendendosi al materialismo nega alla sua sfera sentimentale ogni ruolo attivo nel raggiungimento della felicità (al cuor più non serve una mèta).

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Questo sonetto ha toni ermetici. Lo stato di angoscia esistenziale che lo ha ispirato si lascia solo trasparire, perché già nei primi versi si afferma di averne preso le distanze e di sentirsi al sicuro da esso, anche se nell’ultimo verso la soluzione per risolverlo non è che appena ipotizzata.
La parola chiave da comprendere è guai, che avrei voluto mettere al centro del sonetto. Non a caso però i versi centrali che seguono vogliono dare risposta alla domanda che a quel punto nasce spontanea, cioè «ma cosa si intende con guai?». Innanzitutto questi guai sono guai interiori, della mente, dello spirito, insomma del nostro io. Il guaio interiore per eccellenza dell’uomo moderno è assumere come modello di vita reale il modello di vita virtuale proposto dal mass-media. L’angoscia nasce dal riconoscersi umiliati nella quotidianità da quei modelli che inconsciamente ti sussurrano che la quotidianità è qualcosa di disgustoso da rifiutare, perché monotona, tiepida, conformata, noiosa. I mass-media vivono di questo, perché qualora tu non dovessi più prestar loro attenzione e concentrarti su ciò che dentro e fuori di te “ti sta vicino e tocchi”, loro morirebbero. Per questo devono farti ignorare nella migliore delle ipotesi, disprezzare nella peggiore, ciò che dentro e fuori di te “ti sta vicino e tocchi”.
Non si può condannare il mass-media però. Primo perchè esiste sicuramente anche l’informazione sana. Secondo perché per quanto il messaggio sia subdolo, non dicendoti «la tua vita è grigia» ma «guarda che colori che ti mostro», l’incanto comunque lo scegli tu e non ne sai fare a meno, perché nel frattempo tu non sai chi sei, cosa puoi e cosa vuoi senza di loro.
La conseguenza di tutto è che la voglia di capire le nostre potenzialità e fare del nostro meglio per avere successo nel realizzarle, viene inquinata dalla voglia di vedere nella nostra persona l’immagine di ciò che è richiesto per avere quella fama, quel successo. Tutti in nostri sforzi sono concentrati in una competizione che ci aliena a vicenda, perché l’immagine è ciò che noi possiamo scambiare con il confronto con la virtualità, ma non ci basta nel confronto tra di noi, con la realtà.
Basta poco o molto per uscire da ciò? Non ho risposte, e non escludo neppure che sia solo una fase del progresso passando attraverso la quale un giorno magari ci renderà capaci di comunicare il vivere. Comunque il mio augurio è che l’obiettivo alla fine sia quello: vivere per scoprire, godere e condividere la bellezza che il vivere da sé sprigiona, e ritenerlo una sacralità.

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Qual è il significato della preghiera? Qual è il suo fondamento? Quali presupposti e quali scopi ha? La mia definizione di preghiera non è molto diversa da quella del senso comune. Per me rappresenta la comunicazione diretta con Dio, comunque l’uomo lo concepisca.
Anche l’ateo che pensa al significato di ciò che nella vita accade di soprannaturale o che pensa al significato escatologico della propria esistenza non può non confrontarsi, dialogare con Dio, per quanto poi lo ritenga solo un’idea o magari neppure quella. Anche l’ateo, consapevole di essere persona che cresce, per avere conferma della veridicità della sua posizione di tanto in tanto bussa alle porte di quell’entità. Esige confronti per avere conferma delle proprie posizioni. Se c’è confronto con Dio, c’è preghiera.
In un certo senso quindi pensare Dio è già preghiera, perché comunque per comunicare con Dio ci si ferma pensiero e sentimento. Criticare infine quali siano i sentimenti dell’ateo o del credente quando pensano a Dio non spetta all’uomo, ma a Dio stesso.
Ogni uomo poi si lascia influire nei modi di pregare dalla formazione religiosa, ma ciò non deve impedire che le motivazioni che lo portano a pregare e il senso del pregare siano raggiunte con un percorso proprio. Altrimenti è abitudine.
Riconosciuta quindi la preghiera come condizione umana, le conclusioni logiche sul suo senso vengono da sé.
L’uomo si accorge di arrecare sempre, anche involontariamente, anche se in minima misura, un danno alla vita (inteso in genere come peccato), e si intuisce che mentre la vita nella quotidianità offre i suoi miracoli, noi nella preghiera chiediamo di capire ciò che non siamo e avere ciò che non abbiamo, alimentando il meccanismo di quel processo “entropico” di cui sopra.
L’intero creato dimostra una cosa semplice: l’uomo ne è una piccola parte, quantitativamente insignificante, e ciò sbalordisce. Ma non teniamo conto del ruolo qualitativo che l’uomo ha nell’universo che conosce. Non teniamo conto che la vita di un moscerino qui vicino a noi ha più significati di milioni di anni luce percorsi tra la materia pura. Non riusciamo a capire che se esiste un altro mondo lontano da qui, simile o diverso dal nostro, comunque la nostra vita si esaurisce qui, e in queste condizioni. Non accontentarsi di esser tratti da questa terra (carne), non volersi riscoprire qualcosa di più che terra (anima), non accettare di ritornare a questa terra (morte), è la dimostrazione del fallimento dell’uomo nel sentirsi vivo nel miracolo di questa vita.
Accorgersi che la preghiera assume questi connotati, è mortal ferita

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Toni freddi e cupi emergono spontanei quando si tenta di definire con un ragionamento logico la condizione esistenziale umana, e ancor più quando la conclusione è che l’uomo è il più evoluto degli animali (gran animale) perché riesce a soddisfare i propri bisogni trasformando il male in altro male verosimilmente meno svantaggioso nel tempo e nello spazio che gli sono prossimi. 
Toni freddi e cupi vogliono trasmettere nell’immediato, in ciascuno dei primi otto versi, il grigiore del ragionamento logico privato dei colori emotivi del sentimento (Penso…/Scopro…/Scopro…/Scopro…). Nell’insieme però quei toni esprimono un disagio più elevato alla luce delle domande che seguono (Questo il suo male?/Questo il suo amore?), dove la logica arriva a notevoli forzature concettuali.
Il disagio è quello di rendersi conto, a dispetto di una forma di pensiero millenaria, che la logica non ci basta per comprendere. I problemi da affrontare non partono solo dalla mente, ed è inevitabile alla fine riesumare il ruolo che la sfera emotiva ha e deve avere a fianco della logica per trovare risposte complete ai nostri quesiti esistenziali (E l’amore il male…chi parte dal cuore? È omessa la virgola tra l’amore il male per rendere il più possibile la vicinanza concettuale delle due entità).
Concentrandomi sul male dell’uomo, una volta posto al centro dell’esistenza, non trovo una definizione di male dell’uomo, ma i connotati del male sono così simili all’uomo medesimo che esso appare non proprio nella natura ma quasi nell’ombra della natura umana.
Che il male esista anche fuori o solo dentro l’uomo poco importa sul piano etico, perché comunque dentro l’uomo c’è e bisogna assumersene la responsabilità (anche ammettendo che il male esista fuori dell’uomo, non possiamo ritenerci giustificati di non avere responsabilità sul male dentro di noi).
L’uomo dunque vede il male come un’ombra non solo dietro di sé ma anche dietro i suoi simili, e dal momento che il male lui lo vive e non solo lo vede, ne deriva che, guidato dal male proprio per eccellenza, l’egoismo, e dal male del rapporto interpersonale per eccellenza, l’ipocrisia, concentra le «sue facoltà » (…sapendo che può) per trovare giustificazioni sul proprio male e condannare quello degli altri.
Alla fine sopraggiunge addirittura l’inganno che questa ricerca con questa dialettica lo faccia progredire. Per comunicare questo inganno, le risposte espresse nella seconda metà dei versi 9-10 (anch’esse in forma di domanda per esprimere lo stupore) sono invertite, in quanto avrebbe senso piuttosto affermare che il bene per l’uomo è sapere di potere, il male è volere il potere.
L’uomo comunque rimarrà inappagato nella ricerca esistenziale se non farà i conti con il peso che la responsabilità della sua volontà ha di fronte alle sue facoltà (Puoi voler sapere se non sai volere?). Quando si parla di volontà però non basta più la logica: cuoreamore sono parole che si intrufolano inevitabilmente, perché la loro dimensione è nella volontà.

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Prefazione 2014. Una prefazione del sonetto è fatta per la prima volta ora per questa occasione. A distanza di 15 anni le sfumature intime dei contenuti creano meno difficoltà nella sua stesura. 
Guerra eterna tra l'Amore e l'Egoismo dentro il cuore dell'uomo. Guerra totale che coinvolge sempre e costantemente corpo e anima. Due piani paralleli che fin dall'antichità hanno portato alla convinzione che l'esistenza umana sia destinata a un perenne dualismo. Male e Bene, Corpo e Anima.
La prima quartina descrive il processo di inevitabile rovina che subisce l'amore a causa dell'egoismo umano, presentandosi nelle vesti di un coito. Questi primi versi sono intrisi del complesso mentale con cui si vive la sessualità in un'adolescenza sedotta dallo stile grunge di fine anni '90, ma frastornata dal senso di colpa cattolico marchiato quasi a fuoco nell'infanzia. Questo scontro emotivo guidato da imprinting sociali iniettati fin dalla nascita, può compromettere persino il significato dell'estasi perfetta vissuta in dono a una tenera e romantica "prima volta". Una volta dentro questo dualismo, nessun fenomeno naturale, neppure il più miracoloso come l'attrazione tra uomo e donna, ti può salvare l'esistenza. Infatti questo complesso si può risolvere solo dopo un lungo percorso interiore, dove la scienza guida la teologia e viceversa, nella comprensione della verità del "sè" e della falsità "del mondo". Il senso di colpa di fondo, consiste nel constatare che ogni gesto d'amore compiuto o subito abbia come motore in realtà "l'amor proprio", e quindi sia in sè un atto di egoismo. Quindi la purezza della sensazione emotiva dell'atto d'amore, nel momento in cui passa da desiderio ideale a vissuto fisico, ossia nel momento in cui penetra il vissuto, viene imbrattato da questa compromissione egocentrica, fino a rendere vile e impuro l'ideale di partenza talmente da ritenerlo alla fine atto degno solo della fogna. Un circuito chiuso drammatico. Dove l'unico sollievo possibile da ricercare è la confidenza del medesimo dramma con il prossimo. Quasi che il non sentirsi soli nello sconto di una pena fosse il primo passo per mettere in discussione la pena stessa, e riscoprirsi innocenti. Come infatti alla fine avviene in un sano confronto aperto sulla natura delle cose insieme all'umanità che ti circonda. Perchè così e solo così avviene ogni sana evoluzione di una creatura nel suo ambiente. 

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Prefazione 2014. Anche per questo sonetto non è mai stata tentata una prefazione fino ad oggi in occasione di pubblicazione dei sonetti in un blog. Si parla anche qui di esperienze personali. Un taglio più realistico rispetto alla metafisica del sonetto precedente con cui tuttavia è in continuità. Il momento è un innamoramento in cui la conferma di "corrispondenza di sentimenti" è in sospeso. Cosa stretta ai tempi della passione, soprattutto dopo una chiara e onesta dichiarazione d'amore. Allora il silenzio di ritorno spiazza. Vanifica la sincerità stessa al cuore che con fiducia e forza l'ha provata e osata (quanto difficile è dichiararsi in adolescenza?). E quel silenzio è vile perchè suona appunto come un'offesa a tanto sacrificio. Le buone intenzioni di dichiararsi però non vogliono dimenticarne la ragione: la fiducia in dimostrazioni d'affetto ricevuto. Per sentirsi amati basta un gesto. Anche il più banale in un età dove un secondo, in amore, dura un'eternità da quanto ogni percezione è nuova. Allora tutto si risolve con una richiesta della ragione alla passione: perchè attendere così a lungo se alla fine non il silenzio ma solo il confronto aperto, vero, vissuto, può risolvere un dubbio? Unica consolazione, sperare che la logorante attesa esiti alla fine in un sentimento corrisposto, unico rimedio a tanto logorio.

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David Icke

David Icke